La consapevolezza come antidoto al nichilismo

 

 

E se la vera natura delle cose fosse davvero il nulla? Però il nulla è già qualcosa. E se fosse nulla assoluto? Vacuità?

 

L’essere umano combatte da sempre contro questo non sapere, contro questo nulla inaccettabile, contro la sua stessa coscienza, questa psiche che non si riesce a trovare, a capire, che non si sa cosa sia ma che ci rende consapevoli non solo di essere vivi ma anche di dover morire, a differenza degli altri esseri. Questa disgrazia ci rende umani.

 

Ma se tutto fosse frutto del caso e senza senso, sarebbe poi così intollerabile?

 

Perché abbiamo bisogno di un motivo per vivere? Perché non riusciamo a farci bastare quello che c’è, così com’è? Lo spettro del nichilismo cammina al nostro fianco fin dall’inizio dei tempi. Abbiamo dato potere a un capo tribù, che ha trasmesso questo potere a un successore, poi a un altro, finché questo insieme di successori, di sciamani, di antenati, è diventato Dio. Questa presenza ha cominciato a riempirci le vite, facendoci sentire meno disperati e soli. Un Dio che poi è divenuto religione, una necessità per sopperire alla pazzia. Ma meglio abbondare, e allora ecco comparire santi, divinità, dèi d’ogni sorta, utili per ogni occasione. E in questo nulla ci specchiamo ogni volta che ci fermiamo, che ci annoiamo. Lo temiamo, ma ci viviamo dentro. Come diceva Schopenhauer, il fatto che tutto sia impermanente, svela l’inutilità del tutto. Anche lui, come i buddhisti, intendeva la vita come sofferenza, un susseguirsi di desideri che vengono soddisfatti momentaneamente, ma che danno vita ad altri desideri, e che una volta appagati svelano tutti i loro limiti. La noia è la vera padrona dell’esistenza, specchio della natura vuota. Ogni momento viene riempito di qualcosa ma poi finisce nel nulla, e alla fine ci aspetta sempre la morte. Da qui può nascere la negazione della volontà di vivere, che Schopenhauer vede come una liberazione, come l’estinzione, il nirvāṇa dei buddhisti. Per il filosofo, ogni nostra azione è vista come frutto della noia, anche divertirsi, mangiare e vestirsi, tutti gesti che cercano di dare un senso, di fronteggiare il nulla che ci attanaglia. Chi è cosciente di questo nulla, non trova soluzioni di nessun tipo, se non nella religione o nella spiritualità. Ma se si svuota l’esistenza anche di questo, non rimane che l’angoscia.

 

Eppure, per alcuni, questo spaventoso nulla “risulta essere praticamente tutto”, come dice spesso durante i suoi incontri Jon Kabat-Zinn, fondatore della Mindfulness, perché è proprio in questo apparente nulla che c’è il nostro corpo, il respiro, la vita. Perché non riusciamo a farcelo bastare? Perché è così difficile essere grati di essere semplicemente vivi e di respirare? Perché non riusciamo a essere ma dobbiamo sempre fare qualcosa o essere altrove, con il corpo o con la mente?

 

La poetessa Chandra Livia Candiani, nel suo testo Il silenzio è cosa viva, parla di un costante bisogno d’intossicarci, che nasce proprio dalla nostra incapacità di restare vuoti, e così ci riempiamo la vita non solo di cose divertenti e vantaggiose, ma anche di notizie violente, futili, di discorsi amari e arroganti. Siamo costantemente e disperatamente in attesa che succeda qualcosa, eppure, si chiede la poetessa “non è meraviglioso che non accada proprio niente, che possiamo assistere a questo niente e percepirlo e fremere? Non è meraviglioso perdere qualcosa? Essere disorientati? Essere delusi?“.

 

 

Cogliere la meraviglia nel vuoto, nel mistero, nella capacità di accogliere e di lasciar andare, lasciar essere: “Niente, assolutamente niente: aaahhh!” Esclama Candiani con gioia, con una sapienza a noi lontana, che suona quasi estranea e disturbante. Perché non fare nulla è un’arte.

 

Forse, in quest’epoca di passioni tristi, chiedere di godere del e nel nulla è un po’ come chiedere la luna; è pretendere un tipo di saggezza che non si sa nemmeno più dove andare a prendere. A chi rivolgersi per accettare e comprendere questo? A se stessi?

 

Per Nishitani Keiji, filosofo della scuola di Kyoto, il segreto di tutto risiede nell’adesso, l’unica sequenza realmente irreversibile. Ogni istante ha una nascita, una durata e una fine, ma proprio per questo il tempo, invece, deve essere concepito come senza inizio né fine. Il tempo che diviene qualcosa di perpetuamente nuovo in ogni istante, dove c’è genesi e creazione. Ed è proprio questa costante nascita di attimi sempre nuovi a mandarci avanti, a spingerci a fare, a cambiare strade e a prendere decisioni. In La religione e il nulla scrive: “questa costrizione alla novità incessante carica la nostra esistenza di un peso infinito.” Eppure anche di questo è fatta la vita, di questo impegnarsi perennemente in qualcosa, dove ogni nuovo momento è diverso dal precedente, ecco perché tutto è spesso stressante e ricco di responsabilità.

 

Eppure, la vita è essenzialmente un progetto, una spinta all’essere-in-azione. Anche quando siamo a riposo, in realtà, siamo attivi. Basti pensare al Default Mode Network, quella rete neurale che si attiva in varie zone corticali del nostro cervello, che si risveglia proprio quando ci ritroviamo passivi, senza far nulla, quando non siamo concentrati su qualcosa in particolare. La nostra mente inizia a vagare, a fantasticare, a pensare a noi stessi e agli altri, al passato, al futuro, comincia a progettare, appunto, e veniamo trasportati in quello che è stato denominato mind-wandering.

 

 

Tutto è un “divenire incessante”: “la nostra vita è finita, ma avvertiamo l’essenza di questa vita come una sorta di pulsione infinita che ci assilla senza tregua“, scrive Keiji. Sono la brama, la cupidigia e il desiderio a comandarci, ben lo sanno i buddhisti, per i quali è da sempre di fondamentale importanza liberarsi dell’attaccamento, e che considerano il desiderio uno dei tre veleni da cui liberarsi per riuscire a comprendere la verità ultima e vincere l’ignoranza: “il tempo è, ad ogni istante, sul punto di svanire e tutte le cose mostrano la fragilità del loro essere, sempre sull’orlo del collasso. Tempo ed essere mostrano una costante propensione alla nientificazione fin nel proprio fondamento. Questa è l’impermanenza.”

 

Dove giace, quindi, la terra natia, l’inizio del tempo? Se vogliamo cercare un senso, dobbiamo sempre guardare oltre il concetto stesso di tempo e superare l’antropocentrismo, in questo consiste il vero abbandono dell’Io: “un tempo illimitatamente aperto sia al passato che al futuro, può nascere solo in virtù di un’infinita apertura che giace sul fondo del presente.”

 

La scienza stessa, la tecnica, non possono pensare di trovare risposte rimanendo ancorate alle cose temporali. La terra natia si trova nell’adesso, in quell’attimo in cui il tempo stesso è sempre presente come un tutto.

 

Tutto va e viene, si dissolve e ricrea, si trasforma, ma ricompare sempre nel presente, come in un eterno ritorno, in cui si risveglia una presenza eterna. Inutile cercare scopi o spiegazioni con il pensiero. Se si prende coscienza dell’eternità della morte e del nulla, ogni pulsione alla vita rischia di apparire fine a se stessa, e quindi senza scopo. Come sopportare la possibilità di un mondo senza Dio, il nulla? Come superare il timore della vacuità, del nulla assoluto? Con la consapevolezza, l’unico vero antidoto al nichilismo. Imparare a vivere quell’eterno e unico adesso, può rendere sopportabile anche l’assurdità. In questo sta la vera saggezza. Essere illuminati vuol dire essere consapevoli del nulla senza rischiare d’impazzire, aprirsi a una nuova visione del mondo che non ha più bisogno di etica e religione, perché la verità è che non c’è distinzione tra bene e male, tutto fa parte della vera natura delle cose.

 

Non c’è bisogno di tentare di svelare il mistero se si riesce a restare presenti in ogni gesto della nostra vita quotidiana. È nell’adesso che si celano tutte le soluzioni. Il segreto è imparare a stare davvero seduti quando si è seduti, in piedi quando si è in piedi, camminare quando si sta camminando, defecare quando si sta defecando. Quanto vediamo e viviamo realmente del nostro quotidiano? Sappiamo sentire e vedere davvero senza riempire tutto di parole e pensieri che non sono altro che l’illusione di una parvenza di controllo e di ricerca di risposte? Nello Zen, l’illuminazione si può raggiungere anche mentre si stanno lavando i piatti. Un’illuminazione che non permane, che una volta giunta scompare e ricompare continuamente, stimolata dall’adesso. Neanche l’illuminazione è permanente. Non c’è nulla che esista di per sé, nulla cui aggrapparsi. I figli nascono dai genitori, che nascono da altri genitori, e avanti così fino alla comparsa della specie umana, e poi fino alla Terra, all’origine dell’universo. L’inizio e la fine di tutto vanno di là dalla nostra comprensione. Quello che è certo, l’unica cosa di cui abbiamo esperienza, è il nostro essere qui e ora. Nasciamo e ce ne andremo a mani vuote. Non c’è nessuna risposta a nessuna domanda, le soluzioni sono soltanto in quell’infinitesimale adesso che un istante prima è futuro e un istante dopo è già passato. È qui che tutto si rivela.

 

Nella vita di ogni uomo arriva quel momento in cui qualcosa si rompe. Si può provare a non sentire, a escogitare fughe da se stessi, inventare un mondo di benessere e felicità e cercare di conservarlo, ma il rischio è quello d’ammattire. Non è possibile tenere insieme i pezzi. Non c’è peggior tragedia dell’arrivare alla fine dei propri giorni senza aver vissuto con consapevolezza, distrattamente. Bisogna solo lasciare che tutto sia come deve essere, come avrebbe sempre dovuto essere. Non c’è mai stato nulla, non possiamo cambiare nulla, non abbiamo mai posseduto nulla. La grande rivelazione è accorgersi e accettare che non esistono parole giuste per provare a descrivere il mondo, anche se a volte, soprattutto quando si sta male, le parole sembrano arrivare, quelle giuste, quelle belle, quelle importanti. Con la consapevolezza si può provare a prendere per mano se stessi e a mettere d’accordo tutte le parti spezzate che si hanno dentro. È un lavoro estenuante, ma se si vuole arrivare alla fine avendo partecipato al gioco della vita, allora non si ha altra scelta.

 

Esistiamo per il tempo necessario di accorgerci che c’è solo l’adesso, e che il gioco dell’illusione era talmente fatto bene da far sembrare tutto sensato.

 

E non c’è bisogno di mettere da parte i sogni, i desideri, le brame. È sempre la fine e allo stesso tempo l’inizio di tutto, e chi non vede o non vuole vedere ha già perso: la paglia che respira nel vento, il sole nel cielo limpido, i cristalli di luce sull’acqua del mare.

 

Volete la verità? Come disse Hyakujō: “Quando hai fame mangia e quando hai sonno dormi” ma anche “Un giorno senza lavorare è un giorno senza mangiare”, o come disse Nansen: “La mente quotidiana è la Via.” È come nella pratica shikantaza: stare seduti semplicemente per stare seduti. Riscoprire la naturalezza e capire che non c’è nulla da cercare.

 

Come scriveva T.S. Eliot, “una condizione di completa semplicità (che costa non meno di ogni cosa)”.

 

 

 

Articolo tratto da Pangea

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